AMICI MIEI
(di Mario Monicelli, 1975)
Un racconto divertente e amaro che segna l’ultimo periodo della vera commedia all’italiana: queste poche parole basterebbero a definire “Amici Miei” , pellicola italiana del 1975. Il film nasce come opera di Pietro Germi, ma la malattia portò via il regista nei giorni dell’inizio delle riprese; il progetto fu quindi affidato a Mario Monicelli, grande amico di Germi e già autore di lavori nello stesso solco narrativo quali “I soliti ignoti”, “La grande guerra” e “L’armata Brancaleone”. Cinque gli amici e i protagonisti del racconto : il giornalista e io narrante del film Giorgio Perozzi (Philippe Noiret), l’architetto comunale Rambaldo Melandri (Gastone Moschin), il conte spiantato Lello Mascetti (Ugo Tognazzi), il barista Guido Necchi (Duilio Del Prete) e il Professor Sassaroli (Adolfo Celi). Sono tutti uomini di mezza età, amici inseparabili e infaticabili goliardi. A far da sfondo delle loro avventure e scorribande, le cosiddette "zingarate" , una Firenze degli anni settanta.
Tra i componenti di questo piccolo nucleo vige la vitalità, la complicità e la consapevolezza che lo sberleffo e la burla sono ormai l’unica risposta possibile al grigiore dall'ambiente, dal lavoro, dalla famiglia.
L’ amarezza, che nonostante la vena goliardica dei protagonisti, è la vera protagonista di questo film, è di fatto la grande protagonista della vita stessa; quell’esistenza che va stretta ai nostri personaggi e che quindi cercano una semplice fuga dalla realtà, mascherata dal desiderio di divertirsi, di non farsi scappare l'occasione per giocare. Si definiscono “zingari” perché sentono in loro un desiderio irrinunciabile di libertà e di distacco del piattume della propria vita, si cercano e si uniscono per dar vita ad indimenticabili avventure attraverso le quali si affrancano temporaneamente dai problemi di tutti i giorni. Quando gli zingari tornano dalle loro scorribande è spesso il silenzio che domina la scena: un silenzio che significa un maledetto e inevitabile ritorno alla normalità, ai dispiaceri della vita, alla realtà fatta di problemi.
Fannulloni, immaturi e spiantati ecco le principali qualità degli “zingari” di Monicelli.
Ugo Tognazzi (il conte Lello Mascetti): nobile decaduto, appartenente nostalgico di una generazione passata che ha vissuto nell’ozio e ormai destinata verso un inevitabile declino. Ormai (siamo nel 1975) il ’68 è venuto con il suo carico di rivoluzioni: la società è mutata radicalmente mettendo tutti sullo stesso piano, abolendo certi privilegi, e imponendo a tutti di lavorare per sopravvivere. Ma il Mascetti, non si rassegna, continua a vivere il suo desiderio di nobiltà, facendo la “vita” mantenendo alta una sua dignità, non accettando elemosine e le collette degli amici. Le sue fughe sono un disperato tentativo di fuga da una dura realtà fatta di un squallido monolocale in uno scantinato e di una famiglia ridotta a mendicare aiuti a destra e a manca per sopravvivere ai morsi della fame.
Nel ruolo del Mascetti, un indimenticabile e commovente Ugo Tognazzi che per questo film vinse, nel 1976, il David di Donatello come miglior attore.
Adolfo Celi (il professor Sassaroli): è un medico chirurgo roccioso,un affermato e stimato primario in una clinica privata fiorentina. Alto borghese, ricco, una bella moglie, due figlie e una grande casa; spregiudicato sino alla follia non si fa molti scrupoli a cedere le familiari (incluso un cane e una governante) all'architetto Melandri per unirsi alla banda degli “zingari”. Forse il vero motore vulcanico del gruppo, sono mitiche le ricorrenti scene in cui abbandona un paziente già pronto sul letto operatorio per correre dagli amici.
Gastone Moschin (l'architetto precario del comune Rambaldo Melandri): è il romanticone e sognatore del gruppo; si innamora, che perde più volte la testa per una donna, allontanandosi dagli amici. Poi bastonato e con la coda tra le gambe, rinsavisce, e torna dagli amici a divertirsi e a modo suo ritorna uomo. Ora triste ora gioviale, umanissimo nelle sue escursioni di umore e di sentimenti è forse il personaggio più vicino a tutti noi.
Philippe Noiret (il giornalista della Nazione Giorgio Perozzi): è anche la voce narrante del film, costantemente ripreso dal figlio che gli rimprovera l’immaturità e l’incapacità di vivere responsabilmente la sua condizione di uomo adulto. Noiret, maschera di sconcertante espressività, rappresenta la noia, lo scherno, il divertimento, il non prendere nulla sul serio. Una curiosità: in questo film Noiret è doppiato in italiano da Renzo Montagnani ovvero l'attore che nei due seguiti del film originale interpreterà il personaggio del Necchi.
Duilio Del Prete (il Necchi): è il proprietario del bar, nonché ritrovo, dove nascono e finiscono tutte le zingarate. E' un personaggio che è destinato a scomparire nel mondo e nella società che sta arrivando: maschilista convinto, opprimente e menefreghista nei confronti della moglie.
In mezzo a questi personaggi e queste vite, fatte di meschinità, di angoscianti tentativi di emancipazione da una realtà che disgusta e ripugna, ci sono le zingarate: c'è il 'tutto giù', quando per fingere di costruire un'autostrada che attraversa un paese gli zingari si divertono a gettare nella massima apprensione gli inebetiti paesani.
C'è la supercazzola (o come meglio dovrebbe essere definita “supercazzora”) con scappellamento a destra: il nonsense verbale per eccellenza improvvisato per inebetire e confondere la vittima e far ridere gli amici. Il marchio di fabbrica del Mascetti, una perla di pura genialità comica che solo dalla mente di Tognazzi poteva partorire. Ed infine la scena mitica degli schiaffi alla stazione: ovvero il delirio collettivo. Una sequenza del film che ha fatto la storia del cinema ed è pura arte nella sua completa illogicità e follia . Il riso e il pianto, l'ironia e l'amarezza vivono il loro climax nella scena finale, quando i quattro superstiti, pur piangendo il compagno morto (il Perozzi), trovano egualmente lo spirito per mettere a segno una nuova zingarata, in una vena dissacratoria che rimane inarrestabile e che arriva a sbeffeggiare e ridicolizzare anche la morte. Un finale dolce e amaro che comunque lascia allo spettatore un sorriso velato di amarezza sulla bocca. E’ forse l’ultimo vero capolavoro della commedia all'italiana che è stata di Sordi, De Sica e Totò. Al film seguiranno due seguiti negli anni ottanta (Atto Secondo e Terzo), di cui solo il secondo è degno di menzione .Una citazione particolare per la toccante colonna sonora, firmata da Carlo Rustichelli.
Il testo della prima "supercazzora" del film tra il Mascetti e un vigile
che lo vuol multare per uso improprio del clacson:
Mascetti - Prematurata la supercazzora o scherziamo?.
Vigile - Prego?
Mascetti - No, scusi... Noi siamo in quattro, come se fosse antani anche per lei soltanto in due, oppure in quattro anche scribai con cofandina, come antifurto per esempio?
Vigile - Ma quale antifurto?! Questi signori qua stavano suonando loro, non si intrometta!
Mascetti - No scusi mi faccia vedere l'indice... Guardi! Guardi! Lo vede che stuzzica? Che prematura anche? Allora io potrei dirle anche due parole come vicesindaco capisce?
Vigile - Vicesindaco?
Perozzi e Melandri - Ah! Ah! Ah!
Vigile - Basta così, mi seguano al commissariato!
Perozzi - No eh?! No... Antani secondo l'articolo 12 abbi pazienza... Sennò posterdati per due anche un pochino antani in prefettura!
Mascetti - Senza considerare che la supercazzora brematurata ha perso i contatti col terapio tapioco...
Perozzi - Dopo!